Premessa. In questa scheda viene ricostruito il lungo processo che darà origine alla legislazione statale riguardante il fenomeno dell’immigrazione e sono descritti i principali provvedimenti in materia (per un’analisi più approfondita del testo unico sull’immigrazione leggi questa scheda; sulla normativa regionale clicca qui; per la disciplina adottata a livello comunitario leggi questa scheda)

I ritardi nella definizione di provvedimenti organici in materia di immigrazione. Dal tempo della sua unità fino a periodi non troppo lontani nel tempo, l’Italia ha vissuto uno dei fenomeni migratori in uscita più rilevanti dell’età moderna: si stima che fra il 1876 ed il 1976 siano partiti, soprattutto verso altri Stati europei e le Americhe, circa 24 milioni di italiani, i quali avrebbero prodotto una popolazione di circa 80 milioni di oriundi secondo stime dei Padri Scalabrini. Ancora oggi i dati della Fondazione Migrantes ci dicono che gli italiani residenti all’estero si attestano su una popolazione di oltre 4,5 milioni di persone, il 95% dei quali vive nei continenti americani o in Europa, ed oltre 100.000 italiani vanno a vivere in altri Paesi ogni anno.

Non è un caso quindi se l’Italia è storicamente considerato un Paese di emigrati, e tale è stata considerata, a torto, fino a tempi relativamente recenti. Infatti, se durante gli anni ’60 l’emigrazione di italiani all’estero era ancora un fattore non trascurabile, fu proprio in quel periodo che iniziarono i primi insediamenti di lavoratori stranieri in Italia, attratti dal benessere raggiunto con il boom economico. Il sistema politico italiano si rese conto, con colpevole di ritardo, del fenomeno immigratorio solo verso l’inizio degli anni ’80, tuttavia a livello legislativo nulla si mosse fino alla legge Foschi del 1986. Nel frattempo, la situazione venne tamponata con continue sanatorie fino a che la crisi economica e la crescente disoccupazione portarono al blocco totale degli ingressi di lavoro varato nel 1982.

Dunque fino al 1986 lo Stato repubblicano, in contraddizione con le disposizioni dettate dall’art. 10, comma 2 della Costituzione, regolava l’afflusso di cittadini stranieri sul proprio territorio secondo il TU delle Leggi di Pubblica Sicurezza del 1931, integrato da innumerevoli circolari ministeriali volte a regolare le numerose lacune lasciate da questo strumento. A parte una circolare del ministro del Lavoro sull’impiego di lavoratori subordinati stranieri del 1964 e la ratifica, nel 1981, della Convenzione OIL sulla promozione dell’uguaglianza e al trattamento dei lavoratori migranti del 1975, fu questa la legge che regolò il settore fino all’avvento della legge n. 943/1986, la quale ebbe il grande merito di introdurre una norma sul ricongiungimento familiare, disporre in materia di soggiorno turistico e per motivi di studio e dichiarare solennemente la piena uguaglianza (formale) fra lavorati italiani e stranieri; la legge fu accompagnata da una grande sanatoria che coinvolse oltre 100.000 immigrati. La legge Foschi tuttavia rimase in gran parte inattuata, mentre nel Paese iniziavano ad affluire sempre più copiosi gli immigrati, e con essi il rigetto da parte di frange della popolazione.

La legge Martelli. La legge n. 39 del 1990 tentò di dare una risposta alle sempre maggiori contraddizioni della politica migratoria italiana: dotata di un certo grado di organicità, ma anch’essa nata per rispondere a contingenze emergenziali, essa rappresenta la base dell’attuale legislazione in materia. Questo dispositivo prevede, da un lato, un meccanismo preventivo, attuato tramite il primo esempio di programmazione quantitativa dei flussi di ingresso degli immigrati c.d. economici, la quale viene fissata alla luce delle necessità del mercato del lavoro italiano, e mediante il rilascio di un apposito permesso di soggiorno da parte della Questura o commissariato competente; dall’altro, una fase repressiva, sulla base di disposizioni di carattere penale, che disciplinava, per la prima volta in Italia, la procedura per l’espulsione degli stranieri socialmente pericolosi e gli irregolari. Venivano previsti inoltre l’ennesima sanatoria per gli irregolari già presenti sul territorio e le prime misure volte a favorire l’integrazione degli immigrati. Rispetto alle precedenti disposizioni, la legge Martelli si contraddistingue per l’impostazione severamente restrittiva delle condizioni d’ingresso nel Paese, anche al fine di venire incontro alle richieste che provenivano dagli altri Stati europei, i quali, in virtù della contemporanea adesione dell’Italia al trattato di Schengen, temevano un grande afflusso di lavoratori stranieri sul loro territorio. La procedura di espulsione dei cittadini stranieri, la quale viene utilizzata non solo in termini di repressione dei comportamenti dei singoli stranieri, ma anche come strumento di contrasto dell’immigrazione irregolare, diviene una pratica molto diffusa e facile da attuare con la forma del decreto amministrativo.

È in questo periodo, anche e soprattutto per effetto del crollo del regime sovietico e dei suoi satelliti, simboleggiato, nel caso italiano, dai continui sbarchi di cittadini albanesi sulle coste pugliesi, che avviene un mutamento significativo della percezione dei flussi migratori: molte delle politiche successive alla legge Martelli, anche mancate, come il decreto Dini del 1995, saranno condizionate dall’emergere nell’opinione pubblica di un orientamento negativo nei confronti degli immigrati. Negli anni seguenti si susseguirono leggi e decreti atti a sanare le lacune esistenti all’interno della legge Martelli: nel 1992 una nuova legge sulla cittadinanza innalzò a 10 anni di continua residenza legale il termine per la naturalizzazione dei cittadini stranieri, mentre nel 1993 furono approvate la legge Mancino, contro xenofobia e discriminazione ed il decreto Conso, il quale introduceva nuovi reati ascrivibili agli stranieri e modificava la procedura di espulsione. Nel corso del 1995 fu approvato un decreto legge, poi convertito nella legge n. 563/1995, c.d. legge Puglia, il quale decretava l’apertura, per gli anni 1995, 1996 e 1997, di Centri di accoglienza lungo la costa pugliese: tale legge è stata di volta in volta prorogata ed ancora oggi costituisce le fondamenta del sistema di prima accoglienza italiano.

La legge Turco- Napolitano. Questa prima fase delle politiche di immigrazione del nostro Paese si esaurì nel 1998 con l’approvazione della legge n. 40 del 1998. La Turco – Napolitano fu la prima legge di immigrazione italiana di carattere generale, sistematica e non approvata in circostanze emergenziali; fra le maggiori novità introdotte da questa legge ci fu l’ampliamento e la maggiore definizione della programmazione dei flussi migratori, la quale venne integrata alla politica estera nazionale tramite un sistema di quote privilegiate a favore dei Paesi che collaboravano al rimpatrio di immigrati espulsi dall’Italia. Un grandissimo merito della nuova legge sull’immigrazione fu certamente l’introduzione all’interno del sistema normativo italiano del Testo Unico sull’immigrazione, più volte modificato, il quale concentrava al suo interno tutte le norme nazionali riguardanti questo settore, contribuendo a semplificare e rendere più snella ed ordinata la normativa italiana in materia. La legge Turco – Napolitano operò sia in ottica di un’integrazione lavorativa e sociale degli immigrati, tramite provvedimenti quali la previsione di ingresso per ricerca di lavoro, la costituzione di una carta di soggiorno per stabilizzare i residenti di lungo periodo e l’estensione delle cure sanitarie di base anche agli immigrati clandestini, sia potenziando le politiche di controllo ed espulsione, ritenute necessarie e complementari alle misure di integrazione e ai bisogni nazionali: vennero aumentati i casi nei quali l’irregolare espulso poteva essere passibile di accompagnamento alla frontiera, ed in più vennero previsti i centri di permanenza temporanea ed assistenza (CPT), nati per trattenere ed identificare gli immigrati ed eventualmente espellerli. La detenzione in questi centri, comminata per via amministrativa, era prevista per un massimo di 30 giorni, ed è stata oggetto di molte di critiche nel corso degli anni per la discrezionalità con la quale le forze dell’ordine sono incaricate di farne uso, ma anche per la severa restrizione dei diritti fondamentali che deriva dal prolungato trattenimento presso questi centri.